Marzo 11, 2025
Delhi si svegliava lenta, avvolta in una foschia dorata che ammorbidiva i contorni delle strade e degli edifici. Il traffico, che solitamente pulsava caotico, sembrava ancora trattenere il respiro nelle prime ore del giorno. Ci incamminammo verso la Tomba di Humayun quando il sole iniziava a tingere il cielo di sfumature rosate. Non c’è la folla che invade ogni angolo, non ci sono i tour organizzati con centinaia di persone che corrono da un punto all’altro. È un luogo di tranquillità, che permette di respirare la storia in modo intimo.
Appena varcata la soglia del complesso, il rumore della città svanì, sostituito dal fruscio del vento tra gli alberi e dal canto delle cicogne. Davanti a noi si apriva un giardino geometrico perfettamente simmetrico, un’oasi di verde incastonata nel cuore della metropoli. Al centro, la maestosa tomba in arenaria rossa si ergeva con la sua cupola bianca, preludio architettonico al celebre Taj Mahal.
Fu l’imperatrice Hamida Banu Begum a commissionare questo mausoleo nel 1565, in memoria di suo marito Humayun, il secondo imperatore Moghul. Il progetto fu affidato all’architetto persiano Mirak Mirza Ghiyas, che concepì un monumento innovativo per l’epoca: il primo esempio di tomba-giardino dell’India. Questo stile, ispirato alla tradizione persiana, divenne poi un modello per le costruzioni Moghul successive, culminando proprio nel Taj Mahal.
Ci troviamo ad essere gli unici occidentali tra i visitatori, il che aggiunge un ulteriore strato di intimità alla visita. La sensazione era straniante e affascinante allo stesso tempo: era come se il luogo fosse tutto per noi, come se la Tomba di Humayun si fosse risvegliata solo per accoglierci. Passeggiavamo senza fretta, lasciandoci avvolgere dal silenzio del giardino e dalla magnificenza della struttura.
E mentre cammino per i giardini, tra i vialetti lastricati che portano alla tomba, mi viene in mente Humayun. Il sovrano che morì tragicamente cadendo dalle scale, la sua imperatrice che, nel dolore, costruì un luogo che avrebbe resistito al tempo. Questa tomba, testimone di un amore e di una perdita, mi parla più di quanto avrei mai immaginato. È un’emozione che nasce dal silenzio, dall’intimità di questo luogo, lontano dal frastuono del turismo di massa. La sua bellezza non ha bisogno di essere urlata: basta fermarsi, respirare e ascoltarla.
Poi, come spesso accadeva in India, la nostra presenza non passò inosservata. Gruppi di ragazzi e famiglie iniziarono ad avvicinarsi, qualcuno timidamente, altri con entusiasmo, chiedendoci una foto insieme. Per me, che sono abituata a stare dietro l’obiettivo, fu una sensazione strana. Di solito ero io a cercare di catturare le espressioni delle persone, a inseguire momenti autentici con discrezione. Questa volta, però, erano gli altri a voler immortalare me. Per la prima volta, mi sentii legittimata a chiedere anche io una foto, senza il timore di “rubare” lo scatto. Uno scambio equo di sguardi e sorrisi, un momento di condivisione che annullava per un istante le distanze culturali.
Non se ne sente parlare spesso, ma la Tomba di Humayun mi ha suscitato emozioni che il Taj Mahal non è riuscito a dare. Non fraintendetemi: il Taj Mahal è straordinario, con la sua storia di dolore e amore che si riflette in ogni pietra, ma il flusso incessante di visitatori, il continuo via vai e il turismo di massa, hanno reso difficile viverlo pienamente. Al contrario, alla Tomba di Humayun, con la sua pace e solitudine, ho avuto la sensazione che il luogo fosse solo per noi. La sua bellezza e il suo significato mi sono rimasti nel cuore in modo profondo, quasi come se mi avesse parlato direttamente, senza le distrazioni del mondo esterno.
Ogni passo sul sentiero lastricato sembrava condurci indietro nel tempo, alla corte dei Moghul, tra storie di imperatori, intrighi e amori perduti. Immaginavo Humayun, il sovrano dal destino travagliato, morto cadendo dalle scale della sua biblioteca, e sua moglie, che dedicò anni alla costruzione di questo luogo, trasformando il dolore in bellezza eterna.
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